Un titolo che è diventato un modo di dire, alcune scene (come la celeberrima in cui Anita Ekberg fa il bagno nella fontana di Trevi) che sono diventate il simbolo di un’epoca, un amatissimo cult-movie che all’epoca scatenò violentissime polemiche e voglie censorie da parte di tutto il mondo cattolico italiano, ma fu premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes e diffuse in tutto il mondo neologismi come “paparazzo” (riferito ai fotografi sulle tracce dei divi). Al di là degli aspetti più esteriori, che riguardano la storia del costume più che quella del cinema, un capolavoro che, a distanza di anni, non ha perso nulla del suo fascino. Personaggio centrale è il giornalista Marcello Rubini (Marcello Mastroianni), testimone e complice di un mondo caotico e volgare, cinico, privo di valori e soprattutto minato da un’insopportabile “noia di vivere”. Il film si apre con l’immagine di un Cristo di gesso trasportato in elicottero nel cielo di Roma e si chiude a Fregene, davanti al mare, dove i pescatori hanno portato a riva un pesce mostruoso e dove una ragazza, giovane e dagli occhi innocenti (simbolo di quella grazia che gli uomini persi nei loro piccoli e grandi fallimenti non sanno più vedere), tenta invano di parlare con il protagonista, che non la riconosce e non riesce a sentire le sue parole. In mezzo, tanti episodi a volte tragici e a volte grotteschi: i paparazzi di Via Veneto e le cittadine di provincia dove accadono “miracoli”, le orge notturne nelle ville dei nuovi ricchi e le serate intellettuali che si concludono in drammatici suicidi. L’intento è di mettere in scena la disperata impotenza di una civiltà ormai allo sbando e di tanti individui incapaci di vivere sentimenti autentici. La scelta stilistica è però diametralmente opposta. Invece di raffreddare lo sguardo, Fellini lo colora di ironia e di sarcasmo. Il regista riminese accumula fatti, azioni e movimenti in un carosello sfrenato che compone un affresco composito, colorito, a tratti disordinato ma sempre appassionante.